Memoria di genere. Dall’Archivio notarile all’Archivio di Stato – Maria Marcella Vallascas

Voglio ringraziare l’Archivio delle donne in Piemonte perché ci consente di mettere in evidenza quella che è una delle funzioni principali dell’archivio di Stato che non è soltanto mera conservazione o custodia di documenti ma è soprattutto valorizzazione di essi in quanto memoria e dunque fonti per lo studio del nostro passato, fonti di conoscenza.
Questa opportunità è stata offerta appunto dagli studi svolti qui in questa sede dalle studiose dell’archivio delle donne del Piemonte e quindi io a loro veramente voglio trasmettere un sentito ringraziamento. L’edificio che ospita l’Archivio di Stato è un edificio molto antico ed è legato a delle vicende storiche molto importanti per la città di Novara.
Il Canonico Carlo Francesco Frasconi, archivista e studioso di storia novarese, ci fornisce delle utili informazioni in proposito poiché ci rappresenta l’epoca di profonde trasformazioni architettoniche della città che si realizzarono nel corso di un secolo dalla metà del secolo sedicesimo alla metà del diciassettesimo. La città di Novara era allora inglobata nel ducato di Milano e quindi fu pesantemente coinvolta nelle vicende belliche che in questo arco di tempo videro contrapporsi la Francia e la Spagna. Novara era l’unico avamposto spagnolo in un territorio totalmente occupato dai francesi e per questo motivo Carlo V ritenne opportuno rendere la città inespugnabile trasformandola in una vera e propria fortezza grazie alla costruzione di una serie di bastioni il cui progetto fu opera di un ingegnere militare, Gian Maria Olgiati, che probabilmente pose mano a progettare questi sistemi architettonici già intorno al mille cinquecentoquarantaquattro. Il nuovo sistema difensivo si era reso necessario dall’avvento dell’artiglieria  che aveva modificato totalmente “l’arte della guerra”; dinanzi alle nuove macchine belliche le antiche mura romane, rifatte nel secolo XII, erano assolutamente insufficienti. La realizzazione del progetto dell’Olgiati imponeva l’abbattimento degli edifici che si trovavano nei sobborghi, la prima vittima illustre di queste distruzioni fu proprio l’antica chiesa di San Gaudenzio, nel sobborgo omonimo, sobborgo nel quale allora si trovava anche il convento delle Umiliate (poi Della Maddalena).
La condizione delle monache, la loro vita all’interno del monastero saranno trattate successivamente in maniera egregia dalla Prof. Bartoli che è un’esimia studiosa della condizione femminile nella storia, saranno perciò sufficienti pochi cenni sulle vicende della congregazione religiosa per arrivare poi alle trasformazioni che la sede ebbe sia sotto il profilo strettamente edilizio che sotto il profilo della destinazione. Quando intorno al 1646 avvenne la traslazione del monastero dalla sua sede originaria ubicata nell’attuale sobborgo di S.Martino, le monache si trasferirono in un tessuto residenziale nel quadrilatero compreso tra le attuali Via dell’Archivio, Via Silvio Pellico, Via Greppi e Corso Cavallotti denominato“quartiere spagnolo” perché veniva utilizzato come alloggiamento per i soldati spagnoli. Esse occuparono dapprima un palazzo che era stato degli eredi Caccia acquisito prima dai Barnabiti, come pagamento del debito contratto con loro da Alojsius Caccia e successivamente acquistato dalla Regia Camera di Milano che lo assegnò a questo monastero. Occuparono poi anche la ex Casa delle Orsoline che già al tempo era adibita a casermaggio e, nel volgere di pochi anni,tra il1646 e il 1652, riuscirono grazie anche a donazioni e lasciti ad acquistare le proprietà limitrofe, casa Tarabbia, casa Caccia, casa Della Porta cosicché nel 1651 diedero inizio, nell’area della ex casa Baccalaris, alla costruzione di quella che il Frasconi definisce “la più grande e magnifica di tutte le chiese di monasteri”.
La posa della prima pietra di questa chiesa, progettata dall’architetto milanese Carlo Buzio, avvenne il 18 giugno 1651 con grande solennità e concorso di folla e alla presenza del governatore spagnolo Ignigo de Velandra , come registrato dal notaio Pagani nel documento conservato presso il nostro Istituto. La costruzione fu ultimata intorno al 1654. La chiesa era ad un’unica navata, divisa secondo la consuetudine dei luoghi di clausura in chiesa esteriore e chiesa interiore (rialzata rispetto a quella esteriore); l’ingresso principale era prospiciente ad una piccola piazza circondata da un cancello in legno e da piccole colonne in pietra  con affaccio su quella che fino al XIX secolo fu praticamente la via principale di Novara cioè il corso di Porta Milano oggi corso Cavallotti. Le relazioni settecentesche ricordano la presenza nella chiesa esteriore di pareti decorate con pregevoli stucchi e movimentate dallo sviluppo di sei nicchie che contenevano le statue in gesso dei santi dell’Istituto oltre ricchi arredi e gioielli provenienti dai beni paradotali delle monache. La chiesa interiore ,illuminata da 5 finestre, era a pianta quadrata e in essa si trovavano degli stalli in noce. Si è già detto che presentava una pavimentazione più elevata rispetto a quella della chiesa esteriore sviluppandosi in posizione retrostante rispetto a questa.
Le monache qui vissero tranquillamente per circa un secolo e mezzo. Nel 1798 l’arrivo dell’armata francese repubblicana portò lo scompiglio e sconvolse oltre che questo quieto angolo della città anche l’ordinata vita del monastero: le monache dovettero lasciare in tutta fretta la loro sede e traslocare nell’attiguo convento di S.Agostino, nell’attuale via Greppi, accolte “obtorto collo” dalle consorelle, la chiesa diventa un magazzino militare.
Novara era allora capoluogo del Dipartimento dell’Agogna, una vasta provincia che comprendeva oltre l’alto e basso novarese anche la Val Sesia, la Lomellina e il Vigevanasco. L’amministrazione dipartimentale era affidata ad un Prefetto e così rimase anche quando fu istituito il Regno d’Italia cui venne aggregato il Dipartimento. Proprio al prefetto dipartimentale Mocenigo, si rivolge il Ministro di giustizia con una lettera del 23 luglio 1806  invitandolo a concertarsi con il procuratore dei tribunali dipartimentali e con il direttore del Demanio al fine di insediare a Novara l’archivio notarile, istituito in tutti i capoluoghi di Dipartimento con regio decreto del 17 giugno 1806 . Era necessario quindi trovare una sede per questo nuovo ufficio; venne incaricato di questo un architetto ingegnere, Luigi Orelli, che insegnava disegno e architettura nel liceo dipartimentale (altra istituzione voluta da Napoleone) . Orelli , esponente del neoclassicismo aveva già operato a Novara (è suo il palazzo del mercato) e  ci fornisce delle interessanti notizie riguardo la sua attività volta all’individuazione di una sede adeguata. Visitò numerosi edifici e decise, infine, che quello più adatto per accogliere gli atti dei notai cessati o defunti del dipartimento era proprio la ex chiesa della Maddalena: definisce il fabbricato “costrutto con solidità” e giusto per l’inserimento di un ampio deposito capace di contenere “tre ordini di scaffali posti di contro alle pareti”. Le relazioni che l’ Orelli invia al prefetto fanno trasparire oltre la volontà di attuare il suo progetto anche quella di risparmiare quindi di non gravare eccessivamente sulle casse dello stato e consentono, seppure in assenza di disegni, di comprendere gli interventi edilizi realizzati. Egli innanzitutto unificò il coro e la chiesa con la demolizione del  muro divisorio e l’elevazione del livello della chiesa che era inferiore a quello del coro; sulle quattro pareti altissime dell’ex chiesa fece collocare grandiose scaffalature in legno di noce a tre ordini; ai quattro angoli pose delle scale a chiocciola, per raggiungere i piani superiori sui quali corrono dei ballatoi  con robusti reggilibri destinati a rendere più agevole lo spostamento dei materiali e la consultazione stessa delle carte. In ogni ordine della scaffalatura sono ricavate quaranta sezioni per complessive centodiciassette sezioni ciascuna delle quali presenta cinque ripiani lunghi due metri e larghi uno e offre venti metri lineari di spazio utile per complessivi duemilatrecentoquaranta metri lineari. Questa opera monumentale fu ammirata anche negli anni successivi : lo storiografo ufficiale di Novara, Francesco Antonio Bianchini,nel 1828, la cita nella sua opera”Le cose rimarchevoli della città di Novara” e dice “ Gli stipi per la riposizione delle scritture di sode e operate tavole di noce furono con ottimo scompartimento disegnate dal professore Luigi Orelli”, qualche anno dopo Goffredo Casalis nell’ampia descrizione di Novara, la segnala tra i monumenti della città quasi con le medesime parole del Bianchini.
Il complesso edilizio del monastero dunque era stato totalmente avocato al demanio: una parte era stata destinata al Liceo dipartimentale e la porzione rimanente era stata data in uso per uffici e Archivio Notarile. Con la Restaurazione e il ritorno  di Novara dell’orbita dei Savoia fu sottoposto alla gestione dell’Azienda Generale del Regio Economato Ecclesiastico. Questa poi la vendette per 6500 lire di Piemonte all’amministrazione comunale con un atto del 28 agosto 1823. Una porzione di fabbricato che già l’Orelli aveva fatto costruire in rustico e aderente all’Archivio  fu poi completata e utilizzata per l’ insediamento dell’ ”ufficio di insinuazione”: istituzione sabauda che altro non è se non il precedente dell’Ufficio del registro in quanto tutti gli atti dei notai venivano“insinuati” cioè registrati presso questo particolare ufficio. Nel 1833 il Comune si diede un “Regolamento d’Ornato” con lo scopo di controllare lo sviluppo edilizio all’interno della città, nell’ambito di questo regolamento fu prevista anche la eliminazione di “ogni apparenza alle chiese che nelle passate vicende furono destinate ad uso profano”.
Viene incaricato, nel 1836, il più grande architetto allora attivo e cioè Alessandro Antonelli, di redigere un progetto di rimodellamento della facciata; egli, legato profondamente ai modelli classici, stilò un progetto che avrebbe veramente indicato senza ombra di dubbio in questo edificio un vero e proprio tabularium e cancellato totalmente ogni vestigia della chiesa cristiana. Antonelli proponeva un aspetto semplice ma anche grandioso perché doveva sottolineare l’importanza di questo edificio pubblico”ben luminoso e ventilato”. Era previsto un  sistema decorativo con il posizionamento di due colonne corinzie portanti l’arcata del finestrone e sulla porta due figure poco più grandi del vero elevate su piedistalli allo scopo di caratterizzare ancora meglio la destinazione dell’edificio. Questo progetto purtroppo non ebbe seguito non sappiamo se perché l’Antonelli stesso se ne disinteressò o se perché risultò troppo oneroso per le casse del Comune. Fu l’ingegnere Antonio Busser, molto attivo negli anni 50 del XIX sec che progettò e realizzò la modifica della facciata quindici anni dopo; il Busser, che faceva parte della Commissione d’Ornato, probabilmente aveva visto il progetto dell’Antonelli e da questo trasse ispirazione ma i risultati furono molto più modesti anche perché, probabilmente, dovette contenere le spese. Egli tuttavia percepì il significato delle carte che la chiesa custodiva e immaginò di collocare sull’attico della nuova facciata una statua con una forte carica simbolica, una statua che egli così descrive nella sua perizia “statua sedente da eseguirsi in pietra dell’altezza di un metro e settanta simboleggiante il genio della conservazione con carte e rotoli di pergamena ai piedi, poggiata con la sinistra mano sullo stemma civico” Busser ottiene il nulla osta per procedere con il suo intervento ad esclusione però della statua appunto perché la spesa risultava eccessiva. In quegli anni operava a Novara uno scultore importante, Giuseppe Argenti, che aveva collaborato anche con l’architetto Orelli per le statue del Palazzo del Mercato; l’Argenti aveva il suo studio in contrada Santa Agnese con il pittore Andrea Miglio e lavorava sia per privati che per enti si offrì quindi di scolpire questa statua in pietra di Viggiù e propose una modalità di pagamento abbastanza comoda per l’amministrazione comunale che lo autorizzò a realizzare la scultura. Modellò una figura femminile dalle morbide forme con atteggiamento solenne, quasi malinconico, la mano destra posa sullo stemma della città (non la sinistra come aveva progettato il Busser) mentre la sinistra è protesa a raccogliere rotoli di pergamena e contenitori di carte. L’archivio notarile come sappiamo non aveva, come ancora non ha, il compito di promuovere la cultura ma soltanto quello di conservare correttamente e secondo procedure consolidate le carte che si erano concentrate sugli scaffali a partire dall’epoca napoleonica e che erano andate via via incrementandosi col tempo. Fino al 1770 le carte dei notai erano state custodite dal collegio dei notai che si era retto con delle regole tipiche di una corporazione, sulla base delle lettere ducali del 1511; nel collegio avevano ricoperto cariche di rilievo alcuni notai che poi furono anche archivisti di grande valore e autori di splendidi inventari. Questa duplice veste di notaio-archivista è probabilmente una caratteristica del territorio novarese. Uno di questi fu Carlo Grazioli che nel 1618 compilò un singolare compendio dell’archivio dell’Ospedale della Carità, poi Ignazio Inguino che negli anni tra il 1729 e il 1748 lavorò sugli archivi dell’Ospedale della Carità, dell’Ospedale di San Giuliano e sull’archivio della famiglia Cacciapiatti. Del resto il più antico liber iurium di Novara, il libro magno dell’Ospedale della Carità è stato compilato da un notaio, Gerardo Lanterio che  nella prima metà del secolo XIV ricopiò le centinaia di pergamene dell’ospedale; anche il codice successivo che invece risale al XVI secolo fu compilato da un altro notaio, Giovanni Maria de Clapis. Questi notai, sotto certi aspetti, furono anche degli archivisti perché leggere, copiare e interpretare le pergamene presumeva anche un complesso lavoro di ordinamento. Ancora un notaio, Tommasino Bagliotti, nel 1457  stilò quello che è il più antico inventario che ci è pervenuto cioè l’inventario dell’eredità di Giovannino Nicolis, eredità destinata alla fondazione dell’Ospedale di Sant’Antonio.
Nella seconda metà dell’800 comincia per l’archivio notarile un periodo di decadenza, non ne abbiamo notizie, molto probabilmente però ebbero contatti con l’archivio alcuni notai-archivisti come quel Giuseppe Garone che purtroppo pose mano alle carte dell’archivio dell’Ospedale della Carità facendone scempio o come Augusto Polastri che fu il più valido tra gli archivisti ottocenteschi e che attese al riordino dell’archivio del comune di Novara, depositato presso questo Istituto. Un conservatore, un tale Gaspare di Gaetano, più tardi  ordinò le oltre trecento pergamene sciolte che si trovavano nell’archivio notarile, vi applicò delle etichette  nel verso e diede loro un numero di corda progressivo;. alcune costituiscono dei nuclei superstiti di archivi di corporazioni religiose del Dipartimento dell’Agogna, in particolare della Lomellina, che sfuggirono alla distruzione perché rimasero nell’archivio notarile: gli altri documenti, trasferiti al demanio furono dapprima custoditi a Novara, dopo la istituzione degli Archivi di Stato vennero acquisiti dall’Archivio di Stato di Milano, poiché a Novara non vi era ancora un archivio e distrutti totalmente dai bombardamenti nel corso della seconda guerra mondiale. Purtroppo questi documenti sono stati per sempre sottratti allo studio e questi piccoli nuclei quindi costituiscono una  fonte storica di grande rilevanza. Soltanto intorno all’inizio del XX secolo comincia a farsi strada l’idea che gli atti dei notai fossero importanti come fonti per lo studio di una storia che non fosse solamente agiografica e aulica ma attenta al documento d’archivio. Giovanni Battista Morandi, un erudito, colloca alla base dei suoi studi i documenti  e,in particolare, gli atti dei notai dai quali attinge notizie  importanti  sulle vicende riguardanti il Castello  Sforzesco e  dei quali si serve per la compilazione delle schede dei pittori del quattro – cinquecento. Gli atti dei notai possono apparire a prima vista abbastanza freddi, poco comunicativi, perché redatti con uno stile che è tipico e proprio di questa professione, secondo formulari e schemi che tutto sommato si sono mantenuti inalterati anche nel corso del tempo Sono, invece, se li sappiamo leggere con attenzione molto interessanti perchè ci forniscono  notizie importantissime non soltanto sui singoli ma anche su intere generazioni e comunità, sono fonti inestimabili per lo studio della lingua, dei dialetti, dei toponimi e delle tradizioni  non meno che per lo studio della storia dell’arte e del collezionismo, costituiscono perciò fonti primarie per lo studio della storia.  Negli anni settanta del secolo scorso l’Archivio Notarile lasciò questi ambienti, affidando all’Archivio di Stato, appena istituito, la custodia degli atti dei notai dell’ultimo centennio. L’archivio di stato di Novara rispetto agli altri archivi del Piemonte fu istituito piuttosto tardi, molto dopo gli archivi di Asti Cuneo e Vercelli  proprio per la difficoltà, probabilmente, di reperire una sede.  Questo edificio, col trascorrere del tempo e le innovazioni legislative intervenute,  non appariva più adeguato alla normativa in materia di sicurezza né alle esigenze di una offerta culturale sempre più  incisiva e diversificata per cui fu necessario intervenire con una serie di ristrutturazioni per l’adeguamento della sede che si sono realizzate tra il 1999 e il 2007 e che hanno consentito di poter fruire di questa bellissima sala liberata dalla scaffalatura metallica che correva per tutta la sua lunghezza e impediva la vista della splendida opera orelliana.. Questa sala che secondo me è bellissima, un vero gioiello, meriterebbe degli interventi di recupero funzionale perché rappresenta veramente un polo culturale non soltanto per la città di Novara ma anche per tutto il territorio.  Lascio la parola agli altri relatori.
Vi ringrazio per l’attenzione.