Il tempo per questo intervento è breve, 10 minuti, ma il tema in compenso è facile. Intanto non partiamo da zero: abbiamo qui davanti persone che hanno messo in piedi archivi, raccolto materiali, a volte in modo avventuroso, e si sta facendo questo ulteriore salto.
E’ facile anche perché le ricerche già svolte sugli archivi (penso in particolare a quelle sulle emancipazioniste) hanno dimostrato che, se è vero che la storia orale l’amiamo tutti, il lavoro d’archivio è altrettanto bello e  prezioso. Io mi limito, considerato anche il tipo di incontro, a ricordare le emancipazioniste.
Le emancipazioniste, tra fine Ottocento e inizio Novecento, hanno fatto alcune mosse politiche che hanno cambiato il rapporto tra sfera pubblica e sfera privata, perché hanno portato nella sfera pubblica il tema del disagio, che prima era ai margini. Ma non solo: hanno anche portato un concetto di cittadinanza diverso da quello vigente nell’Italia giolittiana: un concetto più ampio, più inclusivo, più sociale, in cui lo Stato doveva farsi carico delle persone che avevano più bisogno; e hanno introdotto una pratica per la conoscenza dei dati e dei fenomeni, il “settlement”, che prevedeva l’andare ad abitare per un certo tempo nei quartieri dei loro “utenti assistiti” – il fatto che il settlement  arrivi anche in Italia, a partire da Milano, è il segno di un altro elemento interessante, i legami cosmopoliti di questi gruppi di donne.
L’italietta giolittiana era molto provinciale, si dice sempre, ma dipende a cosa si guarda: per esempio l’Unione Nazionale, luogo importante per noi, non è provinciale affatto, ha relazioni con le emancipazioniste di moltissimi paesi.
Quindi a me sembra che già questo aspetto dovrebbe bastare a far capire l’importanza del nostro progetto, oltre al fatto che già esistono archivi in piedi e ricerche fatte.

C’è un altro motivo però. Cerco di sintetizzare molto. Gran parte delle memorie che sono ancora sommerse, lo sono a causa di meccanismi e scelte che sono simili, impressionantemente simili, dall’America delle lotte per i diritti civili, alla Resistenza, al Sessantotto. Meccanismi che occultavano l’azione e il pensiero delle donne, non tutte, ma la stragrande maggioranza delle donne. Non era un complotto, non era una scelta perversa. Per rendere invisibile una donna, gli uomini non avevano bisogno di fare niente, bastava che si lasciassero andare agli automatismi che avevano assorbito nel tempo, e riadattato, consapevolmente o meno, alla realtà del  momento.
Parlando di somiglianza dei metodi, cito solo alcuni elementi sparsi: uno, per esempio, è dare molto valore all’aspetto generale della politica, molto, molto meno all’aspetto locale, dove spesso operavano le donne. Un altro elemento è la svalutazione del lavoro di settore, dove di nuovo ci sono tantissime donne. Un altro ancora è usare uno stile di pensiero e di discorso “cerebrale”, non nel senso di altamente elaborato e sofisticato, ma nel senso di una routine discorsiva astratta, prolissa, a volte deliberatamente involuta- a cui una donna, che è meno abituata alla sfera pubblica, accede più difficilmente. E in qualche caso non è nemmeno interessata ad accedere, proprio perché non le va quello stile politico.
E’ tutta una serie di elementi del fare politica che ha contribuito a rendere invisibili le donne, e poi a renderne poco visibili la documentazione e la memoria. Perché, come sanno molte delle presenti, davvero le cose che riguardano le donne o non sono state neppure rilevate, oppure sono disperse qua e là, e il lavoro per ritrovarle è pesantissimo.

Un  ultimo punto in conclusione: ci sono state discussioni storiografiche accese in cui una parte dei contendenti avrebbe guadagnato molto dal fatto di tenere conto della presenza delle donne, delle sue caratteristiche e delle caratteristiche delle sue fonti.
Un esempio che mi piace e che mi sembra molto chiaro riguarda la Resistenza. Ricordiamo tutte che alcuni anni fa c’è stata una querelle sul carattere minoritario della Resistenza italiana, in cui ci si rimbalzavano i giudizi: “erano tanti”, “non erano tanti”, “era una minoranza consistente”, “no, era una piccola minoranza”. E’ stato un uso pubblico della storia piuttosto pesante, sui quotidiani e sui media in generale. Si partiva fra l’altro da un discorso che trovo discutibile alla radice: è assurdo giudicare la giustezza di un movimento o di un fenomeno dai numeri, si può essere in pochissimi e aver ragione, o essere una maggioranza enorme e avere torto. Detto questo, la cosa paradossale, persino buffa, è che tutti questi commentatori – sia quelli che dicevano “consistente minoranza”, “minoranza di massa”, sia quelli che dicevano “pochissimi, distaccati dalla società” – si basavano su rilievi statistici in cui le donne erano sottorappresentate. Quando si guarda a come facevano le liste degli organici, alcune cose vengono fuori. Da un lato il primo meccanismo è quello di gonfiare gli organici alla vigilia del 25 Aprile, e questo è comprensibile, nel quadro della preparazione alla lotta politica, ma si aggiungono uomini, il che fa apparire ancora minore la percentuale di donne. Ma molte, specie  le staffette, non erano state censite già all’origine, erano state tenute fuori dagli organici delle forze partigiane. Se un uomo faceva il cuoco per una formazione veniva censito come partigiano, se lo faceva una donna era “una che aiutava”, e così per un infermiere e un’infermiera, per non parlare delle tante che curavano partigiani feriti a casa propria, o procuravano cibo e farmaci, o portavano informalmente messaggi. Siamo di fronte ad una strozzatura all’origine. L’incapacità di riconoscerlo ha privato alcuni di quelli che sostenevano – per me con ragione – che era una minoranza consistente, li ha privati di un argomento forte per avvalorare la loro tesi: cioà che era necessario ridefinire i confini della minoranza attiva tenendo conto delle donne, oltre che delle lotte non armate.
Che questo sia un atteggiamento autolesionista, è difficilissimo farlo entrare stabilmente nella testa di gran parte degli uomini – puoi dirlo, scriverlo, ti dicono che hai ragione, poi se ne dimenticano. Proprio perché a rendere invisibili le donne non è stato un complotto, è stata semplicemente l’inerzia, è bastato fare come si era sempre fatto (adesso meno, ma io parlo grosso modo fino agli anni ’60, ’70, quando movimenti che si presentavano nuovi su tutto, come il movimento per i diritti civili o quello studentesco, erano davvero poco nuovi per quanto riguardava le donne).

Un esempio ultimo vorrei fare, di come la mancata cura delle tracce dell’opera femminile, unita alla sua sottovalutazione, abbia portato in un caso (ma sono sicura che ce ne sono molti di più) ad una discordanza lampante tra tipi diversi di archivi. Mi riferisco a Nelia Benissone, che era (purtroppo non c’è più) una delle partigiane intervistate da Annamaria Bruzzone  e Rachele Farina.  Nelia Benissone era stata (oltreché parte dei Gruppi di difesa della donna, oltre che partigiana) a capo della piazza di Torino nei giorni della liberazione. A un certo punto i suoi compagni la tolgono da quel ruolo, arriva un giovane a cui lei aveva insegnato a dirigere le operazioni, e prende il suo posto; e lei viene censita come soldato semplice. Nello stesso tempo, gli americani stanno facendo a loro volta un censimento di quelli che hanno partecipato e come hanno partecipato; visto il suo ruolo, la censiscono come ufficiale. Quindi ci troviamo di fronte a due archivi, tutti e due “maschili”, in cui da una parte c’è una donna che fa il soldato semplice, dall’altra c’è la stessa donna che fa l’ufficiale, e diciamo la verità, se Annamaria Bruzzone e Rachele Farina non avessero fatto questo lavoro, non ne sapremmo niente.
Quindi dicevo: è facile far capire perché è necessario un archivio dedicato alle donne – abbiamo degli esempi che ci incoraggiano e delle persone che ci incoraggiano, partigiane, deportate “razziali” e politiche, militanti antifasciste, esponenti delle istituzioni, che  hanno pubblicamente guardato con simpatia al nostro lavoro e ci hanno offerto idee e notizie preziose. La storia cosiddetta complessiva dovrebbe ringraziarci, perché senza di loro e senza di noi si trova in molte occasioni non solo a dire cose incomplete e false, ma a non sapere affrontare neppure a livello di divulgazione temi che hanno un rilievo – non voglio dire politico, ma etico- su come fare storia, su chi l’ha fatta, e su come distribuire nel modo più largo e più giusto possibile l’attenzione alle tracce e alla memoria. Come omaggio e come insegnamento.

Anna Bravo è stata professore associato di Storia sociale all’Università di Torino e ha lasciato l’insegnamento anticipatamente. Vive e lavora a Torino. Fra le sue pubblicazioni 2003-2006, tiene a ricordare:
– Fragili e ostinate. Memorie in conflitto intorno alle stragi naziste, “Genesis” I/1, 2003.
– Presentazione a A.M. Bruzzone-R. Farina, La resistenza taciuta, Torino, Bollati Boringhieri 2003.
– Il fotoromanzo, Bologna, Il Mulino 2003.
– Voce I Giusti in Enciclopedia dell’Olocausto (ed.italiana a cura di Alberto Cavaglion) Torino, Einaudi 2003.
– Noi e la violenza. Trent’anni per pensarci, “Genesis”, 1, 2004 (2005).
– Il corpo e la memoria, in D.Meghnagi(a cura di), Primo Levi Scrittura e testimonianza, Firenze, Libriliberi, 2006.