Le scritture e le arti – Cristina Bracchi

La ricerca d’archivio sulle scritture e sulle arti implica una forte relazione di contiguità tra il documento e la creatività. La pratica artistica e l’esperienza, di cui il documento d’archivio è fonte e memoria, sollecitano la creatività della pratica critica. C’è infatti una tensione narrativa nella descrizione letteraria di esperienze, vite, immagini, che insieme all’aspirazione biografica e memorialistica va nella direzione della produzione di memoria culturale. Il confronto su memorie disperse e memorie salvate propone la questione della politica del ricordo in una società dell’oblio, dando direzione e corpo a quella che già Elisabetta Donini ha citato come “forza sovversiva del ricordo”[1], di particolare efficacia quando si fa racconto, divenendo esperienza comune e, aggiungo, relazionale. La narrazione dell’altra/o da sé e l’auto-narrazione di sé, che il progetto attorno ai materiali d’archivio rende possibili, hanno a che vedere con la ricezione che ri-significa il passato nel presente, ne riattiva e rinnova esperienze e contenuti. In una visione dinamica della memoria, e soprattutto del fare memoria, che assegna specifico valore al soggetto che acquisisce, cataloga, conserva, interpreta, tramanda, e prefigura il nuovo nella ricezione consapevole e non solo e non tanto nella scoperta ricognitiva di fonti. L’esistenza di archivi delle donne è dunque condizione essenziale per scrivere la vita di una donna[2], per costruire discorso attorno alla differenza, narrare e tramandare la costruzione di mondo secondo le prospettive di genere, che è quanto fanno Laura Rossi, Gianna Cannì, Carlotta Pedrazzoli, Ferdinanda Vigliani, Michela Pachner con i loro contributi narrativi di vite e pratiche di artiste e intellettuali, e di sé, muovendo da documenti d’archivio.

Avere e creare archivi e fondi, renderli facilmente fruibili, eloquenti e significativi, e quanto più dinamici, mutevoli e aperti possibile, con la vitalità di studi e iniziative e con catalogazioni rispondenti a criteri di genere, di differenza, di alterità funzionali agli studi di storia della cultura e di storia delle donne, è fatto politico ed etico. Salvare con nome[3] è metafora di un’idea di archiviazione che riconosce nel nome la parola chiave che sollecita la memoria soggettiva e che attiva quella collettiva, conservandola. Memoria che è soglia fra la presenza e l’assenza. Se nei fondi privati, conservati nelle biblioteche cittadine, si trovano opere e documenti che consentono di ricostruire storie e biografie significative, come quelle di Matilde Joannini e Camilla Lampo, letterate e attrici[4], è dalla presenza di tessuti e reti di relazioni, il movimento si diceva, che si può ambire a privilegiare e radicare una politica culturale di civiltà letteraria e di women’s studies volta al riconoscimento e alla comprensione del contributo di pensiero delle donne allo sviluppo della società e all’individuazione della prospettiva femminile, e alla conseguente trasmissione di memoria, tradizioni, genealogie. L’esperienza di Elide La Rosa, Edda Melon, Angelo Morino, Editori La Rosa a Torino, dal 1979 al 1981, conservata nei ricordi delle protagoniste e in un paio di scatoloni presso abitazione privata, resa disponibile all’associazione culturale Archivio delle Donne in Piemonte, di cui ho personalmente preso visione, racconta di un femminismo che dal movimento si radica in imprese e pratiche, che attiva relazioni importanti con le librerie e le riviste delle donne, con i quotidiani nazionali, con l’editoria estera e propone “scoperte” come Le Duc, Lispector, Millett.

La narrazione che esce dall’archivio, se ha aspirazioni biografiche – soggettive, collettive, intersoggettive – si propone quale relazione d’efficacia creativa tra il soggetto narrato e il soggetto narrante. Nel passaggio dalle fonti alla narrazione, durante la ricezione, prende forma una storia che delinea  modelli e significati nuovi, operando lo spostamento e il rinnovamento e l’integrazione del canone prevalente, spesso con un’ottica anti-canonica[5]. Il racconto di una vita, di un’impresa, di un agire fatto dall’altra necessaria è pratica di narrazione[6] e pratica politica femminista, tesa a configurare riconoscimento e modelli in riferimenti esistenziali e culturali, capace di intervenire a livello simbolico con figurazioni e segni propri. La narrazione è uno spazio culturale della memoria, il più dialogico e relazionale, il più duttile ad adeguarsi agli sviluppi nella tecnologia di archiviazione, il più sensibile alla ridondanza e all’ubiquità dei dati, il più capace ad uscire dalle istituzioni archivistiche con esiti di conoscenza interdisciplinare e intersoggettiva, il più sollecito a significare nella semantica e nell’estetica, il più incline a proporre controcultura e r-esistenza democratica.

[1] Aleida Assmann, Erinnerungsräume. Formen und Wandlungen des Kulturellen Gedächtnisses, Oscar Beck, München 1999; traduzione di Simona Paparelli, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Il Mulino, Bologna 2002, p. 399.
[2] Il riferimento è al saggio di Carolyn G. Heilbrun, Writing a Woman’s Life, 1988, traduzione di Katia Bagnoli, Scrivere la vita di una donna, La Tartaruga, Milano 1990.
[3] Mi rifaccio al titolo del volume di studi letterari di Edda Melon, Salva con nome, Trauben, Torino 2004.
[4] Si tratta di mie ricerche su cui si veda: Il sorriso malinconico, la poesia, le relazioni di Matilde Joannini, in Cristina Bracchi, a cura di, L’alterità nella parola. Storia e scrittura di donne nel Piemonte di epoca moderna, Thélème, Torino 2002, pp.119-152; Camilla Lampo (1779-1850): un’attrice in Accademia, in Alfredo Mango, a cura di, L’Arcadia e l’Accademia degli Innominati di Bra, Franco Angeli, Milano 2007, pp.203-214.
[5] A questo proposito, spunti di riflessione in Anna Maria Crispino, a cura di, Oltrecanone. Per una cartografia della scrittura femminile, manifestolibri, Roma 2003.
[6] Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti: filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 1997.