Il fondo di Natalia Ginzburg all’Einaudi: ritratto di una redattrice pigra e incompetente – Gianna Cannì

Il fondo contenente il carteggio editoriale di Natalia Ginzburg è oggi al sicuro, riordinato e custodito presso l’Archivio di Stato di Torino. Quando, però, qualche anno fa ho preso visione delle lettere dell’autrice relative al suo lavoro presso la casa editrice Einaudi[1], il fondo – conservato allora presso l’Archivio Storico Einaudi – aveva ancora l’aspetto di un insieme di documenti preziosi, sicuramente già consultati a vario scopo da altri (ricordo gli appunti e i post-it gialli dell’editore Giulio Einaudi su alcune lettere), ma ancora “muti”: l’avventura consisteva quindi nel trasformare quelle lettere in una storia da raccontare.

Mi è stato consegnato uno scatolone contenente 7 cartelline verdi o rosa salmone, ordinate per anno e contenenti lettere, schede di lettura, contratti, qualche cartolina postale. I destinatari più ricorrenti delle lettere erano, in periodi diversi, Cesare Pavese, Luciano Foà, Italo Calvino, Giulio Bollati, Guido Davico Bonino, Carlo Carena, Ernesto Ferrero, Agnese Incisa, oltre che Giulio Einaudi stesso. Ho anche fatto lo spoglio di tutti i verbali delle riunioni dei consulenti e del comitato editoriale, incluso i verbali relativi alle riunioni che si tenevano, tra i collaboratori più stretti, presso il castello di Rhèmes durante il periodo estivo. 

 L’impresa di narrare una narratrice attraverso i suoi scritti inediti, secondo l’altra angolazione del lavoro culturale e non creativo in senso stretto, ha richiesto una lunga e paziente sosta, la scelta di stabilirsi per un significativo lasso di tempo dentro un archivio di carta fino ad abitarlo con naturalezza, senza la sensazione di essere una forestiera. Il senso di familiarità, in questo caso, è stato raggiunto relativamente presto: le lettere di Natalia Ginzburg sono talmente dirette e sincere che chi le legge si sente subito integrato in una comunicazione intima. Anche la grafia, fatta di caratteri larghi e quasi infantili, ha reso meno faticosa e più immediata la relazione.

Man mano che procedevo nello spoglio del carteggio editoriale, prendeva forma  il ritratto di una redattrice che aveva ricoperto un ruolo importante all’interno della casa editrice, senza tuttavia aver avuto incarichi di particolare rilevanza. Non è privo di significato il fatto che alla mole notevole di lettere editoriali corrispondeva invece un numero minimo di interventi nelle riunioni: dai verbali è risultato con chiarezza che Natalia Ginzburg prendeva la parola raramente, come se la sua influenza si facesse sentire in maniera informale più nelle relazioni private che durante i momenti ufficiali in cui bisognava prendere delle decisioni.

In altre parole era proprio la specificità femminile del suo lavoro quello che mi premeva far emergere, tra invisibilità apparente e autorevolezza riconosciuta, ben sapendo quanto sia difficile mantenere la propria voce individuale sessuata in un contesto lavorativo fortemente logocentrico, dominato da uomini della statura di Cesare Pavese, Elio Vittorini, Italo Calvino.   Tra questi collaboratori più stretti di Giulio Einaudi, Natalia Ginzburg era infatti l’unica donna.

La spia di un modo diverso di accostarsi al lavoro intellettuale, in polemica probabilmente con i modelli maschili, si trova in un saggio della scrittrice, intitolato significativamente La pigrizia: “Non avevo mai preso la laurea, essendomi fermata davanti a una bocciatura in latino (materia in cui, in quegli anni, non veniva bocciato nessuno). Non sapevo le lingue straniere, a parte un po’ di francese, e non sapevo scrivere a macchina. […] La mia pigrizia – ricorda nell’articolo del ’69  –  non consisteva nel dormire fino a tardi a mattino […] ma nel perdere un tempo infinito oziando e fantasticando […]. Mi dissi che era venuta per me l’ora di strapparmi da questo difetto”.[2] Quello che è presto emerso dalla lettura delle carte della scrittrice è un modo di esercitare la propria professionalità senza fare affidamento su competenze specifiche, ma sul gusto, sulla sensibilità letteraria, addirittura sull’intuizione. La grande considerazione ottenuta da parte dell’editore nel corso degli anni assume quindi una valenza politica, perché implica il riconoscimento di una qualità “femminile” di lavorare. Tale qualità – chiamata provocatoriamente dalla Ginzburg “pigrizia” o “incompetenza” – si esprime nell’autrice con grande coscienza della propria identità di donna, per quanto sia in lei assente qualsiasi vocazione emancipatoria in senso stretto (del resto Natalia Ginzburg si ritenne sempre estranea al femminismo e al suo linguaggio).

Dalle carte che rendono conto della lunghissima collaborazione della scrittrice con la casa editrice Einaudi, durata più di 50 anni (dal 1937 al 1990, anno della morte), sono affiorati alcuni tratti salienti del lavoro culturale della Ginzburg e della sua personalità, che arricchiscono di sfumature la sua voce inconfondibile di narratrice. La specificità femminile del suo “mestiere”  di redattrice – per usare la parola con cui la Ginzburg amava chiamare con voluta umiltà la propria attività di scrittrice –  si trova nella profonda coerenza tra lavoro creativo, lavoro editoriale e vita: il lavoro culturale è radicato nella concretezza dell’esperienza, nella capacità di far sentire, come si diceva, in un ambiente così decisamente maschile e intellettuale le ragioni di una intuizione quasi epidermica.

I primi contatti diretti dell’autrice con l’Einaudi risalgono al 1937, anno in cui le viene commissionata la traduzione della prima parte della Recherche, mentre si trova con il marito Leone Ginzburg  al confino, presso il piccolo paese di Pizzoli. La collaborazione come redattrice  inizia, invece, nell’autunno del ’44, quando Natalia ha già perso il marito, ucciso dai nazisti nelle carceri di Regina Coeli. La scrittrice si rivolge alla casa editrice di cui  Leone Ginzburg era stato socio fondatore e viene assunta da Muscetta nella sede romana: avrebbe voluto essere assunta per le sue competenze e non solo per il fatto di essere la vedova di Leone, ma riteneva di non possedere nessuna abilità specifica. Sin dai primi anni, il lavoro di Natalia consiste in traduzioni dal francese, nella correzione di bozze, nella scrittura di presentazioni, note biografiche, “soffietti”. Di giorno legge, corregge o traduce i libri degli altri, di sera scrive i propri. Il rapporto tra queste due attività – quella di redattrice e quella di scrittrice – è molto stretto. Anche le schede di lettura, così come le introduzioni e le note ai testi,  forniscono indicazioni preziose sulla poetica della scrittrice, sulla sua ricerca letteraria.  A questo proposito sono particolarmente illuminanti le schede di lettura e le lettere agli aspiranti autori. Da ognuna di esse risulta chiaro che Natalia cerca in un libro  l’autenticità e l’onestà nel modo di trattare le parole. “La riserva principale è questa: ci sono delle persone – Lei e anch’io – che non sanno raccontare bene se non quello che conoscono a fondo: non sanno inventare sul niente”, scrive in una lettera dell’ottobre 1948 alla signorina Fusè, che aveva proposto alla casa editrice un romanzo. E poi conclude:  “Se mi permette di darLe un consiglio io le direi di inventare il meno possibile, di tenersi il più vicino possibile alla realtà della sua stessa vita”. Quello che colpisce in questa lettera, e si potrebbero fare molti altri esempi analoghi, è la capacità di Natalia Ginzburg di mettersi in gioco in prima persona, di fare riferimento alla propria pratica di scrittura, a conferma di quella grande coerenza tra i due lavori, culturale e artistico, che contraddistingue la sua attività di redattrice. Inoltre, per la Ginzburg le ragioni del gusto sono assolutamente prioritarie, nessun interesse commerciale sembra sfiorarla. In due lettere a Foà del ’53 si legge un giudizio sui romanzi di Druon molto esplicito al riguardo: “sarebbe forse un successo, ma un successo che non potremmo consumare senza rossore”, e ancora: “io non lo farei, a dirti il vero: perché sono giochetti che a noi non ci vanno ma bene, puntare sul successo di un libro di basso ordine e di grossa lettura”. La scrittrice e la redattrice sono in ogni occasione perfettamente integrate. 

Accanto a questa contiguità con l’attività di narratrice, l’altro aspetto significativo, rivelato dal carteggio editoriale, è il bisogno, apparentemente contraddittorio, di autonomia da un lato e di collaborazione e confronto dall’altro. Un po’ di autonomia, dice la Ginzburg in una lettera a Pavese del 15 agosto ‘46, serve anche a chi “scopa i cessi”. Riguardo all’indicazione di Pavese di sottoporgli tutte le lettere (probabilmente quelle di risposta agli aspiranti scrittori), Natalia scrive: “la tua lettera è stupida perché hai l’aria di credere che noialtri si voglia diventare dei dirigenti; mentre nessuno più di me – e credo anche di Mila – aspira alla funzione di scopacessi. Ma anche nella funzione di scopacessi  è necessario un minimo di autonomia: trovare da sé gli stracci necessari e i secchi e l’acqua calda, e pulirsi il proprio cesso in pace. Facendo così si faranno anche magari dei piccoli errori ogni tanto, ma si lavorerà.” Natalia non ambisce a chissà quali avanzamenti di carriera, ma vuole svolgere il proprio ruolo di redattore senza dover chiedere il permesso per ogni cosa che fa o dice. In particolar modo desidera poter curare liberamente la corrispondenza con gli autori dei manoscritti. Per capire meglio questa lettera così dura nei confronti di Pavese, occorre ricostruire velocemente il contesto: già dalla fine dell’estate del ’45 Natalia Ginzburg si era trasferita a Torino e lavorava dunque nella sede del capoluogo piemontese, provvisoriamente diretta da Massimo Mila, dal momento che Cesare Pavese, allora direttore editoriale, si trovava a Roma. Le sedi, alle quali intanto si era aggiunta quella di Milano, diretta da Vittorini, lavoravano in strettissima collaborazione, grazie anche al cosiddetto “giornale di segreteria”, che veniva compilato quotidianamente e inviato tramite corriere ai vari uffici. Spesso però questo continuo scambio tra le sedi rallentava il lavoro: non erano dunque vanità e desiderio di protagonismo a spingere Natalia Ginzburg a chiedere autonomia, ma un più semplice senso pratico e amore per il proprio lavoro.

 In pochi anni però la scrittrice si conquista sempre maggiori spazi di autonomia e già nel ’49 sovrintende, pur senza dirigerle formalmente, alle collane di narrativa italiana e francese, in concomitanza con il progressivo disinteresse di Pavese per la narrativa a favore degli studi etnologici e antropologici della “Collana Viola”. Le scelte di Natalia vengono però sottoposte a Vittorini (il cui verdetto è spesso decisivo)  e agli altri redattori, dal momento che la politica dell’Einaudi prescrive un lavoro di squadra. Solo nel caso di Renata Viganò, la Ginzburg non ritiene necessario il parere di Vittorini e in una lettera del 27 ottobre ’48 all’autrice di L’Agnese va a morire esprime con la consueta semplicità di linguaggio un giudizio appassionato: “Magnifico stile, misurato, sobrio, magnifici effetti di paesaggio… Da farsi. Da farsi. Da farsi.”

La forza dell’Einaudi di quegli anni sta, in realtà, proprio nell’integrazione delle diverse personalità e competenze, e Natalia riconosce la vitalità di questa collaborazione, per quanto aspiri a quel tanto di autonomia necessario per svolgere il proprio lavoro in maniera fluida. In una lettera non datata a Giulio Einaudi, scritta approssimativamente alla fine del ’51, quando tra i collaboratori e amici si era venuto a creare un grave divario politico, la Ginzburg ribadisce l’importanza del confronto e della rete di relazioni: “il nostro lavoro, il lavoro della casa editrice, non può essere un lavoro di isolati; io, anche soltanto per rivedere le traduzioni, per leggere e giudicare dei libri, ho bisogno di sentire che ho intorno un crescere di pensieri; se no, non  rivedo bene le traduzioni e lascio degli errori nelle bozze, non per cattiva volontà o indifferenza ma perché mi diventa tra le mani un sotto-lavoro e io i sotto-lavori non li faccio bene”. Natalia aveva rivendicato davanti a Pavese l’esigenza di svolgere il proprio lavoro con una relativa autonomia e tuttavia autonomia non significa per lei isolamento: senza il contatto umano e intellettuale continuo con i colleghi, il mestiere di redattore diventa ai suoi occhi un lavoro distratto e inutile, addirittura un sotto-lavoro. Tanto è vero che, quando per seguire il secondo marito Gabriele Baldini si trasferisce a Roma, prova un’acuta nostalgia per il lavoro collegiale della sede torinese, con la quale si tiene giornalmente in contatto epistolare (in particolare, il maggior numero di lettere da Roma sono destinate a Luciano Foà), ma piuttosto che trovarsi in un ufficio affollatissimo, dove si sente sola e in esilio, preferisce lavorare quando possibile a casa.

La sensazione di esilio e spaesamento diventa insopportabile negli anni Ottanta, quando la casa editrice è colpita una profonda crisi economica. In questa fase, la profonda coerenza dell’autrice e la sua fedeltà all’autonomia lavorativa come valore irrinunciabile si vedono confermati proprio nella scelta di dare le dimissioni. Nel 1983 la casa editrice, a causa di un indebitamento eccessivo, era stata commissariata e messa all’asta. La società vincitrice, il gruppo Accornero, Mauri e Unipol, aveva fornito all’Einaudi ampie rassicurazioni circa la libertà e l’autonomia delle scelte editoriali, eppure, nonostante queste rassicurazioni, il 9 marzo 1987, Natalia Ginzburg invia tramite il suo avvocato una lettera in cui chiede di essere esonerata dall’incarico di consulenza esterna a partire dal mese successivo, accennando a “motivi personali”. Tali motivazioni si ricavano da una lettera scritta ad Ernesto Ferrero qualche giorno prima: “Non potrei davvero essere utile ad una casa editrice che ha assunto questa nuova, oscura e per me avversa fisionomia”. Rilascia, sempre nel marzo ’87, anche una intervista a questo proposito all’”Europeo”, in cui i colleghi sembrano notare un tono di “indulgente commiserazione” per quelli che sono rimasti a lavorare presso la nuova casa editrice. Nessuno però le risponde pubblicamente “in omaggio a quello spirito einaudiano che si sono visti negare”, dirà Ernesto Ferrero. Per Natalia Ginzburg è però diventato impossibile lavorare e pubblicare presso una casa editrice a suo giudizio completamente snaturata. Lo spiega a Ferrero in una lettera del 4 aprile: “Immagina che uno sia, da anni e anni, abituato a passeggiare in un bosco. Improvvisamente il bosco diventa un’autostrada: lui allora preferisce andare altrove, ovunque altrove. Per fabbriche, autostrade, cortili o pollai. Ovunque dove non ci sono per lui memorie di boschi. La tua situazione è diversa dalla mia. Non perché “gli impiegati, poveretti”, come tu mi accusi di aver altezzosamente pensato. Ma perché si capisce che gli impiegati, i redattori, difendono il loro posto di lavoro. Però io sono uno scrittore. Non ti sembra logico che gli scrittori scelgano, quando possono, il luogo dove situare i libri che hanno scritto? È inutile dirsi “staremo a vedere” e “sarà tutto uguale”. Non sarà tutto uguale”.

Pur sottraendosi alla “tristi memorie di boschi”, continua ad interessarsi alla sorte dei manoscritti che aveva letto nei mesi precedenti (tra questi, in particolare, i libri di Bisutti, Janigro e Mannuzzu): “Immagino che la nuova Casa Editrice vorrà fare soltanto libri di gran successo: e la possibilità di successo per questi scrittori è minima o inesistente. Però a me sembrano, nel deserto generale della narrativa contemporanea, vivi e degni di essere letti con attenzione”, si legge nella stessa lettera a Ferrero del 3 marzo 1987, dove torna il disinteresse per le questioni economiche, cui si accennava sopra.

Dopo le definitive dimissioni del 1987, la Ginzburg pubblica ancora per Einaudi la requisitoria sul caso di adozione illegale di Serena Cruz e si dedica, fino alla fine dei suoi giorni, nell’inverno del 1990, alla traduzione di Una vita di Maupassant. Le correzioni del testo le scrivono le nipoti al suo capezzale. È l’ultimo lavoro di una redattrice che aveva voluto definirsi “pigra e incompetente” con la volontà precisa di infrangere i codici intellettuali maschili.

[1]   Ho svolto tale ricerca per l’Università degli Studi di Torino nell’ambito del progetto “La scrittura letteraria delle donne del Novecento. Fonti narrative, editoria” coordinato da Alba Andreini. I risultati completi del lavoro d’archivio sono stati esposti nel saggio Natalia Ginzburg alla casa editrice Einaudi. “Una redattrice pigra e incompetente?”, in Vivere da protagoniste. Donne tra politica, cultura e controllo sociale, a cura di Patrizia Gabrielli, Carocci, Roma 2001.
[2]   Natalia Ginzburg, La pigrizia in Mai devi domandarmi, ora in Opere, vol.II, Mondadori, Milano 1987, pp. 28-29.

Abstract:
Grazie allo spoglio sistematico del ricco carteggio editoriale di Natalia Ginzburg è possibile ricostruire le diverse fasi della collaborazione – durata più di mezzo secolo – della scrittrice con la casa editrice Einaudi. L’insieme delle lettere, le schede di letture, le bozze delle prefazioni e delle quarte di copertina mettono in evidenza la profonda coerenza tra lavoro creativo, attività editoriale ed esperienza di vita dell’unica donna ammessa nel gruppo più ristretto dei collaboratori e consulenti di Giulio Einaudi. Proprio prendendo spunto dal caso eccezionale dell’autrice di Lessico famigliare, si può ipotizzare una ricerca volta a ricostruire la fisionomia specificamente femminile del lavoro culturale di altre scrittrici incluse nel catalogo Einaudi, come Lalla Romano, che hanno collaborato a vario titolo con la casa torinese.

Gianna Cannì. Dottore di ricerca in Storia delle Scritture femminili, collabora con la cattedra di Letteratura Italiana contemporanea, ricoperta dalla prof.ssa Alba Andreini presso l’Ateneo torinese. È autrice del saggio “Natalia Ginzburg alla Casa editrice Einaudi. Una redattrice pigra e incompetente?”  (2001) e, insieme ad Elisa Merlo, del volume “Atlante delle scrittrici piemontesi dell’Ottocento e del Novecento” (2007).