Le femministe vanno in archivio? – Elisabetta Donini

 La domanda che ho scelto di proporre come titolo, con il suo punto interrogativo rivolto prima di tutto a me stessa, scaturisce dalle ambivalenze che avverto essendo stata – insieme ad altre tra le presenti – una delle promotrici e poi fondatrici dell’associazione culturale “Archivio delle donne in Piemonte”. E’ appunto di alcune di queste ambivalenze che desidero ragionare, sottolineando innanzi tutto che non voglio chiamarle contraddizioni, perché non le percepisco come dualità oppositive tra poli incompatibili, quanto piuttosto come tensioni di tipo dinamico, attrazioni che vanno in direzioni differenti, ciascuna delle quali mi sembra che possa avere senso, all’interno però di un legame complesso e articolato.
Negli interventi di chi mi ha preceduta ci sono già stati alcuni accenni a quanto stiano cambiando certi modi di porsi; Patrizia Celotto, in particolare, diceva che conservare non era verbo che avesse molta fortuna negli anni ’70 e ’80, mentre Marilla Baccassino commentava che se allora non si raccoglievano le carte, forse era perché l’impegno immediato nel movimento prevaleva su ogni altra dimensione. Dovremmo dunque pensare che la maggiore attenzione con cui oggi tante iniziative di donne mirano a recuperare e preservare le tracce di quanto fatto in passato scaturisca dalla consapevolezza che si tratta di vicende in larga misura concluse e che proprio perciò vanno ‘messe in archivio’, come quelle pratiche non più di uso corrente che dalle scrivanie migrano a coprirsi di polvere in fondo ad un armadio?
Credo che sia in parte così, ma che nello stesso tempo sia una rappresentazione incompleta. La prima tensione che vorrei segnalare è proprio questa: insieme allo sguardo che archivia un passato da cui ci siamo noi stesse staccate, mi sembra che nella spinta che da qualche anno si è fatta più intensa a lavorare per la conservazione della memoria stia agendo anche la volontà di continuare a essere tuttora presenti e attive. Anzi, questo incrocio tra il desiderio di serbare documentazione di ciò che è stato e quello di proiettarne il senso verso situazioni nuove apre la possibilità di interagire con quante, più giovani, nel confrontarsi con le nostre vicende possono mettere in campo altre sensibilità e altre prospettive.
Sono quindi due le nozioni, diverse ma entrambe sensate, che mi pare vadano tenute presenti: ci interessa un archivio-deposito, ma insieme ad esso ritengo di poter dire che nei percorsi di questi anni ci stiamo adoperando anche nell’ottica di un archivio-progetto, inteso come spazio di una storia che procede nel tempo e che attraverso ciò che resta come tracce di un passato, si prolunga nella innovazione continua che le nuove generazioni possono portare. Già altre dicevano: “è un dialogo”, un dialogo tra chi raccoglie, chi conserva, chi legge e reinterpreta, e un dialogo tra chi ha vissuto certe esperienze e chi – come raccontava prima Alessandra Mecozzi parlando di un incontro con giovani delegate metalmeccaniche – può dire a quante, più anziane, si rifanno al proprio intenso passato: “metteteci in condizione di conoscerla, quella vostra storia”.
Una seconda ambivalenza riguarda il rapporto tra le dimensioni individuali delle singole storie di vita e le dinamiche condivise negli ambiti del movimento delle donne e del femminismo. Che cosa selezionare, nei tentativi di autoarchiviazione che stiamo mettendo in atto, tra le moltissime carte, appunti, materiali di innumerevoli tipi che sono stati accumulati come fondi privati, ma che possono essere rilevanti per la memoria collettiva? Mentre ritengo che la vita di ciascuna non possa essere contenuta – né recuperata e ripercorsa nella sua pienezza – nelle tracce d’archivio, penso che attraverso queste ultime sia invece possibile conoscere il senso degli impegni politici condivisi, badando però a come nel tempo mutano i criteri della rilevanza non solo individuale e della stessa condivisione.
L’aspetto personale è per certi versi quello che mi interessa di meno, perché mi sembra un dato quasi fisiologico che ciascuna di noi, proprio quando diventa anziana, si interroghi di più su che cosa desidererebbe che non andasse disperso; ma da quale punto di vista distinguere tra il privato che si esaurirà insieme alla singola esperienza di vita e ciò che può avere senso anche oltre questa? Cercherò di spiegarmi ragionando sulla situazione in cui mi trovo io stessa quanto a carte che vorrei si salvassero delle troppe che ho in casa, a partire dal fatto che – pur se non ho vissuto a Torino proprio gli anni più caldi della rivoluzione neofemminista – dal 1984 (quando sono ritornata qui) e soprattutto dall’86-’87 (quando la critica femminista della scienza si è più ampiamente e profondamente incrociata con la critica di genere del modello di sviluppo) con molte delle donne presenti in sala ho maturato e sviluppato dei legami fortissimi, che sono stati e sono tuttora portanti del mio senso di me e della mia storia personale, ma che nello stesso tempo mi pare non si riducano a questo.
Farò due esempi: uno, che vedo maggiormente proiettato nella categoria dell’archivio-deposito e un altro, su cui mi soffermerò qualche minuto in più, cui guardo invece nella prospettiva dell’archivio-progetto. Il primo lo menziono rapidamente; Marilla Baccassino ha fatto prima un accenno a Bice Fubini e alle “donne di scienza”, e anch’io, con una storia diversa, posso dire di me che sono stata e sono ‘donna di scienza’. In casa ho molte carte – appunti, materiali di convegni, registrazioni, libri, scritti di tanti tipi… – legate alla critica femminista della scienza, legate in particolare ad un periodo che è stato per me avvincente quando, soprattutto dopo il disastro di Cernobyl dell’aprile ’86, parve che in Italia, come altrove nel mondo, non solo le femministe come fatto culturale, ma il movimento delle donne come fatto politico-sociale, stessero mettendo in atto una critica radicale di quel modello tecnico-scientifico di intervento sul mondo come forma di appropriazione e dominio, che sta a sua volta alla base del modello di sviluppo della tecnologizzazione, dei grandi rischi, dei grandi impianti e così via. Ecco, quello mi appare ora come un periodo chiuso, perché sono consapevole che oggi è totalmente inattuale – anche tra le donne del movimento – il mio persistere nel ritenere dotata di senso la denuncia femminista della non-oggettività della scienza; ma qui lo dico e qui mi fermo, appunto perché sento che è inattuale e tuttavia sono convinta che quelle tracce vadano conservate. In questo caso penso che vadano conservate come archivio-deposito: in passato c’è stato un fenomeno rilevante, se ne serbi memoria, altre potranno rivisitarlo.
Invece, l’archivio-progetto: per dare il senso di questo secondo e diverso esempio desidero mostrare un’immagine che per ora lascio come sfondo:

 

Il filone della mia storia torinese a cui mi sento maggiormente legata è iniziato proprio qui a Torino nel 1987, quando si formò il gruppo “Non ci basta dire basta” e diverse in sala hanno vissuto quelle settimane intensissime tra fine febbraio e maggio dell’87 che ci portarono a realizzare – appunto nel mese di maggio – il primo convegno a Torino con donne libanesi, israeliane e palestinesi. Fu quello l’inizio di un percorso che dura ormai da vent’anni: ci sentivamo in grado, come donne, di mettere in discussione la politica internazionale condotta con gli atti di forza, con le guerre, con l’occupazione, con la violenza; ci sentivamo in grado di dire che era possibile un’altra storia, volta all’attraversamento dei conflitti a partire dal vissuto condiviso in quanto donne. Nell’88 riuscimmo ad andare a Gerusalemme per un campo di pace con palestinesi e israeliane, di lì nacquero molte altre iniziative e si avviò un percorso, che appunto è durato vent’anni. Ora, io so benissimo – ne parlavamo anzi ieri sera con Alessandra Mecozzi, altra co-protagonista di quegli inizi, andammo insieme a Beirut nell’87 – so benissimo che a Beirut la violenza non è risolta e soprattutto che nei Territori palestinesi, tuttora occupati a quarant’anni dal ’67, oggi è peggio di allora.
Ma quale deve essere in questo caso la messa in prospettiva storica? Che allora non ha avuto senso? Che allora eravamo illuse? Che c’è stato un fallimento? No, non lo credo ed è perciò che ho scelto di proiettare questa immagine, che è molto più antica, come si capisce anche dagli abiti di quelle signore; è un’immagine del 1932, vi compaiono alcune donne del “Peace and Disarmament Committee of the Women’s International Organizations”, che aveva raccolto nove milioni di firme e le presentò alla conferenza per il disarmo di Ginevra. La fotografia viene da un archivio, che fa parte dell’Archivio delle donne nei Paesi Bassi, che ha avuto per parte sua una storia accidentata, perché venne rubato in periodo nazista, venne recuperato a Mosca e di recente è tornato nei Paesi Bassi. Che cosa mi dicono quelle signore? Quando proprio attraverso la rete delle Donne in nero (che riprende la modalità femminista-pacifista delle donne israeliane contro l’occupazione e che è tuttora operante in Italia e nel mondo – e anche qui a Torino siamo un gruppo che ha adottato quel nome), quando attraverso la rete di cui mi sento parte, mi è arrivata quell’immagine, ho provato una grossa emozione e anche un primo momento di sconforto, che ho dovuto rielaborare e riassorbire. Da un lato, nove milioni di firme nel 1932 e con una tale chiarezza: per il disarmo, cioè andando alle radici dei meccanismi della guerra, che non significano non usare le armi, ma organizzare la società per non produrle, cioè adoperarsi proprio per un’altra società; e dall’altro lato, poi ci fu la seconda guerra mondiale. Dunque non ebbe senso? Al contrario, ha ancora più senso, è ancora più necessario che anche qui a Torino abbiamo tentato e tentiamo il pochissimo che sappiamo fare; altrove, forse, altre vi riescono con maggiore incisività. La straordinaria ampiezza di quella lontana raccolta di firme mi dice che altre storie sono possibili; anzi, che altre storie hanno agito, non solo quella che si deposita nelle carte di chi prevale – non voglio dire ‘nelle carte dei vincitori’, perché chi fa le guerre secondo me non è comunque un vincitore, è un distruttore di mondo.
Dunque, archivio come risorsa di potenzialità che continuano a rinnovarsi, di alternative che sono tutora operanti e che vanno trasmesse: sono esistite e permangono, costituendo così uno strumento perché altre vi si rifacciano lungo percorsi sempre rinnovati.
Concludo con una frase che traggo da Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, un volume di Aleida Assmann, che contiene una discussione molto elaborata di che cosa significano il rapporto tra memoria e ricordo, tra conservare e interrogare e la tensione tra il soggettivo e l’oggettivo, tra l’archivio-deposito e l’archivio-progetto. Una frase che mi è molto piaciuta è “la forza sovversiva del ricordo”[1]: la forza sovversiva che il ricordo assume quando viene plasmato da una soggettività che si oppone alle stratificazioni delle memorie legittimate dal potere, quale è appunto a mio parere il caso delle femministe. Anziché un archivio-fine, in cui le tracce si seppelliscono, Assmann disegna così la figura dell’archivio-arché-principio, che opera “nel tempo”, molto più che “contro il tempo”[2]
E’ questo il tipo di messaggio che credo di poter cogliere, e che mi fa dire che ha senso che oggi siamo ancora Donne in nero, pur se in Palestina-Israele oggi è peggio di allora. Ed è anche per questo, io credo, che il progetto dell’Archivio delle donne in Piemonte è un progetto vitale, perché è un progetto che vuole conservare, ma che si proietta nel presente e nel futuro. Si aprirebbe qui un ulteriore spazio di ambivalenza: sovversive, però cerchiamo di dare stabilità alle nostre tracce, di arrivare a una struttura consolidata e questo attraverso un dialogo tra movimento e istituzioni, che è parte costitutiva del nostro programma di lavoro. Si tratta di nuovo di una tensione non oppositiva: siamo soggetti che esistiamo in una precisa realtà, non siamo soltanto individue private né agiamo soltanto come espressioni di movimento; siamo anche attrici pubbliche e come attrici pubbliche dialoghiamo con le istituzioni, soprattutto nelle istituzioni dialoghiamo con altre donne che, con percorsi in parte simili, in parte diversi, si mettono però in relazione con noi, perché anche nelle istituzioni venga riconosciuto che quella storia c’è stata, c’è, ed ha senso.

[1] Aleida Assmann, Erinnerungsräume. Formen und Wandlungen des Kulturellen Gedächtnisses, Oscar Beck, München 1999; trad. it. Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Il Mulino, Bologna 2002, p. 399.
[2] Ivi, p. 30

 Abstract:
Nella percezione corrente, archiviare una vicenda, una pratica, delle carte equivale a considerarle questioni ormai chiuse, da accantonare nei depositi, spesso polverosi e oscuri, delle memorie messe in disparte.
Archivio, dunque, come sedimento di storie concluse? Tanto a livello personale, quanto rispetto ai legami tra femministe e con il movimento delle donne, credo che la spinta che da qualche anno si è fatta più intensa a recuperare, conservare, trasmettere tracce delle nostre esperienze scaturisca anche dalla consapevolezza del fatto che è invecchiata ed è andata appannandosi la capacità, singola e collettiva, di incidere sulla realtà a partire dall’affermazione della differenza di genere.
Eppure, questo stesso impegno a dare valore alla storia di cui siamo state protagoniste non solo ribadisce la volontà di continuare ad essere presenti e attive nel corso del tempo, ma è anzi un nuovo terreno di interazione con quante, più giovani, nel confrontarsi con le nostre vicende possono mettere in campo altre sensibilità e altre prospettive.
Dall’archivio-fine si passa così piuttosto all’archivio-arché-principio, che opera “nel tempo” molto più che “contro il tempo”, come sottolinea efficacemente Aleida Assmann (Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Il Mulino 2002, p. 30), quando afferma che “il ricordo soggettivo avviene nel tempo ed il tempo stesso interagisce attivamente nel processo”.
A questa tensione, non oppositiva ma complementare, tra memoria e ricordo e ad altre ambivalenze che mi paiono costitutive di un progetto di archiviazione inteso in senso dinamico, anche come continua riapertura di potenzialità alternative alla storia di chi volta per volta è prevalso, intendo accennare nel mio intervento, rifacendomi a qualche spunto del mio stesso caso di donna che da un lato ha conservato e conserva in privato i materiali delle proprie esperienze e dall’altro sta lavorando insieme ad altre perché le femministe vadano sì in archivio, ma come soggetti attivi che incidono tuttora negli spazi pubblici disegnandovi il loro orizzonte di senso.

Nata nel 1942, sono una delle fondatrici dell’Archivio delle Donne in Piemonte.
Faccio parte del gruppo delle Donne in nero della Casa delle donne di Torino e sono impegnata dalla fine degli anni ’80 nelle attività e nei legami attraverso confini e conflitti del femminismo pacifista.
Già docente di Fisica presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Torino, faccio tuttora parte del Centro Interdisciplinare di Ricerche e Studi delle Donne (Cirsde) della stessa Università. Nel campo degli studi in prospettiva di genere mi sono dedicata soprattutto alla critica femminista della scienza, oltre ad essermi occupata, sia a livello teorico sia attraverso iniziative concrete, di questioni quali la politica della diversità, la cura dell’ambiente, la critica dei modelli di sviluppo.